Capitolo settimo
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Giovannantonio Macchiarola
Fin dall’inizio ho trovato una ferrea e irragionevole resistenza al ricorso per Cassazione basata sul fatto che l’avvocato di Foggia se ne era rifiutato e sul dichiarato sospetto che la «persona che si sente lesa» - a sentire la moglie del mio amico Giovanni - è portata naturalmente a sostenere posizioni che, riflettendo una interpretazione personale, non hanno alcun valore da un punto di vista giuridico. Ora, quello che più mi fa urtare è la presunzione degli altri quando presumono che tu sia presuntuoso e non vedono la propria! Oltretutto è assai ben facile dimostrare la presunzione dell’altro: basta individuarne e poi mettere in discussione le argomentazioni che ne sono la base, ovvero mostrare come quelle argomentazioni siano insussistenti, se non assenti. Per questo, già alla prima telefonata, avevo risposto in maniera piccata a quella sua argomentazione e che avrei avuto modo di risentirmene se mi confondeva con un cliente «qualsiasi». Aggiungevo che evidentemente lei non aveva letto il mio sito in quanto la mia era una lotta di principio per cui prevedevo che solo una Corte di Giustizia Europea avrebbe potuto rilevare la nefandezza di questa sentenza quand’anche la Cassazione non l’avesse già fatto. «No, non volevo dire questo. ma…» e di nuovo a reiterare la sua teoria della fallacia interpretativa attribuibile d’ufficio alla parte lesa con un giro snervante di parole… come fece nel corso di tutte le telefonate senza aver aver mai dato un elemento che potesse denotare la improponibilità della mia «interpretazione». Insistevo, comunque, sulla necessità che lei prendesse visione del sito e per sdrammatizzare la situazione che si era fatta tesa, le dissi: “Avvocato, lo metta in parcella, secondo tariffa, ma legga quello che ho scritto sul mio sito!” Lei aveva declinato tale possibilità (di metterlo in parcella, credo) mentre io mi ripromettevo di inviarle una mail con le motivazioni del ricorso perché lei si convincesse della validità delle mie ragioni. Ebbi anche modo di dirle, già nella prima conversazione: «Lei si convinca di questa cosa e questa causa la vinciamo! Immagini la storia che ne nasce: una giovane avvocato e un vecchio dipendente, come in quei film americani…! un’epica battaglia civile…! Se lei se ne convince, noi vinciamo ma deve comprendere il mio punto di vista e l’esigenza che ho di tener viva la mia lotta. Ma deve comprendere…» per aggiungere subito le mie scuse per quella parola, “dovere”, che lei però riteneva del tutto condivisibile: «No, lei ha ragione. Io devo comprendere, devo capire tutta la cosa. Lei ha ragione, non deve chiedere scusa. E’ questo che deve fare l’avvocato!» Ma non lo fece mai. Perseverai nella mia insistenza con tutte le argomentazioni possibili (dopo che aveva ricevuto e letto anche la prima sentenza del Giudice del lavoro di primo grado, nel frattempo recuperata), evidenziando le contraddizioni e le illogicità delle due sentenze tali da rendere ammissibile, se non doveroso, ricorrere in Cassazione. «No, io non faccio una causa in cui non credo!» E io: “Qui non si tratta di credere o meno alla causa in quanto essa serve anche in caso di soccombenza, inoltre… INOLTRE consideri la cosa dal punto di vista di Pascal: se si fa ricorso, la Cassazione potrà escluderlo ma anche, forse, accettarlo… ed è meglio fare quello che ci lascia una possibilità, seppure peregrina, che quello che ce la esclude sicuramente. Lo consideri almeno, solo come un fatto puramente di rito, procedurale, perché, altrimenti lei mi sottrae il diritto di ricorrere alla Corte Europea…” e così via lasciandoci, visto che lei aveva da fare, quasi di fretta, e con l’impegno da parte mia di inviarle un canovaccio dei motivi di ricorso che stavo approntando… «Ma lei crede che sia facile scrivere un ricorso per Cassazione? Lei non conosce…» Ed eccola qui la presunzione, la sua e la mia! “Avvocato! Non so se ha letto tutta la documentazione inviatale ma il ricorso per Cassazione contro la sentenza di primo grado del giudice penale, quello L’HO SCRITTO IO! «Infatti» mi rispose serafica «quando l’ho letto, mi è sembrato strano che l’avvocato Carlo Iannarelli fosse stato capace di redigerlo…» riuscendo, persino in quel momento, a non riconoscere in me un interlocutore valido o, quantomeno, attendibile! Ho evitato, mio caro lettore, di infarcire questo raccogliticcio riassunto delle tre telefonate con la citazione degli articoli del Codice Civile con cui avevo infiorettato le mie argomentazioni e la citazione di sentenze di Cassazione fin esaminate durante la seconda e, di più, la terza telefonata avvenuta negli ultimi giorni di novembre, per non complicarne il resoconto. Per concludere, ci lasciammo con l’intesa che avrebbe accettato solo la causa civile per il risarcimento penale in quanto persistevano tutte le sue remore sulla possibilità di adire la Cassazione avverso le quali mi impegnavo, tuttavia, a inviarle una mia memoria che mi ripromettevo di definire in quei giorni e che avrei richiamato il successivo lunedì, il 27 di novembre. E, invece, non ho telefonato. Da quel giorno fui tutto preso dalla ricerca e dalla lettura delle decisioni della Cassazione per individuare, innanzi tutto, gli elementi che rendessero ammissibile il ricorso e l’orientamento, nel merito, dell’Alta Corte attraverso la consultazione della giurisprudenza conseguente per poi, con riferimento agli articoli del Codice civile, mettere per iscritto le contraddizoni e le illogicità della sentenza di Appello, anche in correlazione con quella di primo grado che ne era stata confermata. Per quanto riguarda il primo punto, rimaneva chiaro la necessità di non entrare nel merito della decisione del giudice appellato con osservazioni volte a censurarne il percorso mentale seguito ovvero ad individuare una sua cattiva oppure omessa valutazione. Basta ciò per far che, in via preventiva, il ricorso non passi alla valutazione della Corte. Per quanto riguardava, invece, gli errori logici, le contraddizioni e la falsa imputazione, questi risultavano del tutto evidenti alla semplice lettura della sentenza di appello. Non che non avessi qualche dubbio sulla mia presunzione, tanto granitica era stata la chiusura dell’avvocato di Foggia e ora, sulla sua scia, della moglie dell’amico Giovanni! Eppure, più leggevo, più approfondivo la questione, e più mi appariva chiaro l’assurdo ordito di quelle sentenze di cui andavo evidenziando errori logici tali che ci sarebbe voluto troppo tempo per esaminarli e trattare di tutti . Mi assorbii totalmente in quell’impegno vivendomi in quei giorni un senso di soddisfazione, di potenza, di orgoglio… e, man mano che mi si rivelavano le contraddizioni delle due sentenze, mi compiacevo della maniera con cui le andavo esponendo e sciogliendo tanto che sarebbe bastato metterci un cappello e una chiusura per poterlo inoltrare. Per questo venni meno all’impegno di telefonare alla moglie del mio amico Giovanni e continuai invece a rintracciare e confrontare le sentenze dell’Alta Corte e a scrivere, ampliare e limare la «mia proposta di ricorso» fino ai primi giorni di dicembre.
La moglie del mio amico Giovanni
sanseveropuntoit, 5 Aprile 2018