Lufficiochenoncè L’ASSURDA RAGNATELA …continua All’Ospedale di San Marco trovai a ricevermi quel medico strampalato di cui posso riportare solo il cognome, Stoduto, il quale, nella esposizione dei fatti che avevano preceduto il mio ricovero, trovò conferma della diagnosi che lo aveva motivato. Inutile dire che alla mia risposta: “Le sembro, dunque, delirante?”, rispose che, se pure non lo sembravo, il fatto che stessi a raccontargli quella storia assurda lo confermava nel sospetto che lo fossi e prescrisse la somministrazione di un qualche farmaco. “Le sembra che io ne abbia bisogno?” gli dissi ma lui mi rispose che era solo una precauzione e che, in ogni caso, mi avrebbe aiutato a dormire quella notte. Gli dissi che, allora, volevo mutare in volontario il trattamento obbligatorio che mi aveva colpito ma rispose che non gli era possibile e che una tale richiesta era da presentare al responsabile del reparto. Compresi che ormai ero in trappola e che non c’era via di scampo e l’unico modo di trattare coi folli rimane quello di assecondarli perché qualsiasi ulteriore rimostranza sarebbe servita a ben poco se non a fornirgli conferma della sua diagnosi. Non saprei dire se fu quello stesso pomeriggio o il giorno dopo che vennero a trovarmi i colleghi d’ufficio, Maria Florio e Ugo Berardi. A Maria chiesi che mi procurasse un pigiama e lo spazzolino per i denti e Berardi mi abbraccio con le lacrime agli occhi. Seppi, molto tempo dopo, da Maria, che quella era una finta e che lui l’aveva giustificata dicendo che era dei gemelli e, quindi, aveva una personalità doppia. Vennero a trovarmi anche le signore della Segreteria e Cristina De Santis. Il giorno dopo venne a trovarmi Pietro Zaccaro che, ancora mesi dopo, ricordava, sogghignando, quella ricoverata che mentre parlavo con lui mi si era rivolta pensando che io fossi un dottore del reparto e alla quale risposi: “Finisco col signore, e poi l’ascolto”. Questa impressione, era dovuta tra l’altro al fatto che vestivo con giacca e cravatta, come feci in tutti quei giorni, il che mi distingueva dagli altri ricoverati. Lo stesso giorno venne a trovarmi Peppino Donnanno insieme a Carlo Iannarelli, due avvocati. Mesi dopo, parlando con mia moglie, le dissi: “Due avvocati e nessuno di loro, i laureati, pensò di fare opposizione al mio ricovero facendo ricorso al Giudice tutelare e io stesso non ci ho pensato!” Mia moglie mi rispose: “Se tu in un frangente simile avessi pensato anche a questa cosa, allora veramente avresti dimostrato di essere folle!” La mattina successiva Stoduto mi si rivolse in un modo alquanto diverso. Ebbi l’impressione che avesse avuto una più chiara cognizione dei fatti e ne approfittai per dirgli che la pillola che mi aveva prescritto mi aveva creato problemi, adducendo crampi alle gambe e chissà quale altro sintomo. Quello mi disse che, allora, avrebbe interrotto quella disposizione e che mi avrebbe prescritto qualcosa di più blando. Capii che erano scuse e che stava solo cercando di coprire la nefandezza di cui si era reso conto ma a cui doveva dare corso a tutela del collega che l’aveva perpetrata e della categoria di appartenenza. continua…
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Capitolo UNDICESIMO L’UFFICIO CHE NON C’E’
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