GIORNI FATIDICI Poi venne il giorno. Dico che venne il giorno in cui l’attacco che mi veniva portato fu di una impudenza, di un oltraggio tale che dovetti uscire dal mio incubo e dalla depressione precedente per affrontare la battaglia a viso aperto. C’è gente che è morta per questo, come ci hanno insegnato dalle scuole elementari gli eroi del Risorgimento, capaci di affrontare la morte piuttosto che rendersi incudine al martello dell’oppressore quando trova godimento a esercitare un potere senza limite col solo fine di umiliare chi gli è assoggettato. Per quanto non corressi un rischio tanto grave non è forse dovere dell’oppresso contrastare chi ti vuole servo, anche se il rischio fosse quello? Ma queste sono considerazioni successive a quel momento in cui, a ora tarda, in attesa che le ore quattordici segnassero la fine di quella giornata venne il messo a notificarmi una lettera. Proprio in quel momento stavo ad illustrare a quelli che mi ascoltavano che, dopo il gesto del mese precedente in cui mi ero assunto una responsabilità che non mi competeva, mai più mi sarei sottoposto a continuare nella gestione degli stipendi come chiarito nella lettera inviata al sindaco e alle organizzazioni sindacali, mettendo sull’avviso i dipendenti. Non avrei mai pensato che Cologno sarebbe arrivato al punto di sfidarmi ulteriormente credendo di piegarmi senza tenere conto che, nonostante l’incuria degli amministratori e degli uffici coinvolti, dal Sindaco al Ragioniere Capo che non si erano dati peso della faccenda, di Cervini che non si era attivato per risvegliarli dalla loro paralisi, io mi ero sentito impegnato a risolvere quel problema nel mese precedente. E quel giorno venne Era l’11 di aprile del 1984. Rimasi impietrito sul momento. Ricordo ancora quel vigile più giovane e il suo sorrisetto: “E ora che fai?” intendendo che dopo tutte le mie spacconate con cui millantavo il mio rifiuto dandolo per scontato appena qualche minuto prima, ora mi sarei dovuto piegare e rientrare nel gregge in cui lui insieme agli altri si crogiolava. “E ora che fai?” con quell’aria di sfida che non prevedeva altra via d’uscita che la mia inevitabile resa. Comprendevo che ero ad un bivio. Se non avessi subito quell’ordine di servizio mi sarei trovato di fronte una massa di dipendenti inferociti per la mancata riscossione dello stipendio alla data prevista e ci avrebbe pensato il sindacato, con in testa Tantoia, pronto ad agitare il suo dito e ad aizzare la massa dei netturbini contro l’orgoglioso dipendente che con la sua spavalderia aveva loro compromesso il pagamento dell’affitto o impedito di comprare il latte per i figli… Nello stesso tempo, accettare quell’ordine di servizio significava tradire me stesso, venir meno ai miei principi e arrendermi a fare come gli altri, come quel vigile con quel mezzo sorriso di disprezzo stava a dirmi: Non sei migliore di noi, anche tu sei del gregge e mentre noi lo siamo per scelta tu, nonostante i tuoi principi, dovrai arrenderti, volente o nolente, a farne parte. Per quanto non me ne ricordi il nome, ce l’ho ancora davanti, leggermente più basso di me, una figura smilza, appoggiato di sedere alla scrivania alle sue spalle su cui si sosteneva con le mani, le braccia all’indietro per tenersi in equilibrio e quel sorriso insistente di scherno e di sfida: “E adesso, che fai?”, devi arrenderti! Noi non siamo vigliacchi ma solo più furbi perché ci siamo arresi per tempo per non avere i tuoi grattacapi e siamo più sereni e felici di quanto tu lo sia stato e lo sia a causa delle traversie che ti sei procurato con la tua spavalderia. “Quisque est faber suae fortunae” diceva Antonio Carafa, persona più di cultura di quel vigile visto che, a quella meno nobile che faceva riferimento ai treni persi, intercalava questa citazione latina. Nonostante gli studi liceali, stessa feccia, comunque.
Capitolo QUARTO GIORNI FATIDICI
La musica del sito sanseveropuntoit 27 maggio 2022 Prot.07 del 11/04/1984
LA LETTERA del Sindaco DEL 11 APRILE 1984
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