L’idea di telefonargli restò a frullarmi in testa per diversi giorni. La moglie era un avvocato e più di dieci anni prima, a conoscenza della mia vicenda, mi aveva indirettamente suggerito la possibilità che mi facessi assistere da lei vantandone i meriti alla luce di alcuni risultati da lei conseguiti nelle cause civili che aveva patrocinato. Allora avevo declinato l’offerta in quanto avevo già dato corso alla causa davanti al Giudice del lavoro, assistito dal mio avvocato di Foggia. Non lo vedevo, d’altronde, da troppi anni e non sapevo quali potessero essere i suoi rapporti con la politica e con l’Amministrazione comunale e se, di conseguenza, la moglie potesse avere delle remore a rappresentarmi. Aggiungo che certamente potevo dire di godere della loro stima in quanto, ai tempi belli dell’URP… tanto tempo fa… in una lontana Galassia… avevano richiesto il mio parere facendomi partecipe di una questione familiare che li riguardava indirettamente. Per diversi giorni continuai a gingillarmi con quel pensiero… anche dopo che ero riuscito a rintracciare il suo numero di telefono su internet… e, alla fine, poiché era l’unica soluzione che ero riuscito a pensare, mi decisi a vincere e superare il mio imbarazzo, telefonandogli. «Ah! Ma come stai? Ma che piacere? Proprio l’altro giorno…» e lascio al mio benevole lettore immaginare il piacere che io ne ricavai a sentirmi così ben accolto e, addirittura, ricordato! E piacere ancora di più perché nella mia errabonda e solitaria esistenza, come si protrae ormai da troppi anni, non avevo facile occasione di ottenere una benevolente attenzione al mio caso da parte di un’altra persona. Ed io, quindi, a chiedere della sua famiglia, di come gli andava il lavoro per poi, con riferimento alla mia nota vicenda… («Ma certo! Che mi racconti? quella porcata che ti hanno fatto…!»), avanzare l’idea che la moglie potesse assumere la mia difesa («Ma certo! Te la passo…») e che no, non volevo parlare con lei per non farla sentire in obbligo ma che suggerivo che lui gliene parlasse e che lei andasse a leggere quanto avevo scritto sul mio sito («…ma sì, sansevero punto it… ogni tanto ci vado…») in maniera che, comprendendo lo spirito che animava la mia battaglia e che mi dava sprone, potesse decidere, con convinzione e altrettanto ardore, di rappresentarmi. Ci lasciammo con l’intesa che ne avrebbe parlato quel giorno stesso, che sarebbe stata, poi, lei a mettersi in contatto… («Ma certo, ti faccio chiamare…») …anche in caso negativo… («Ma certo! Non ti preoccupare…») …con me dopo aver… («Ma ci mancherebbe…») …va bene, ciao… («Ma sempre con piacere…!»). Il sollievo all’ansia che mi aveva dato quella conversazione andò scemando nei giorni successivi e dopo una settimana, non avendo ancora ricevuto riscontro, cominciò a riaffiorare l’inquietudine e il dubbio se veramente stessi a vivere un incubo kafkiano o se il tutto fosse l’effetto di una mia psicosi o di paranoia oppure che non avesse memorizzato il mio numero (ma no quel giorno era caduta la linea e lui aveva richiamato); condannato comunque all’indifferenza, al silenzio come risposta ad ogni mio tentativo di rompere quella ragnatela, uscire fuori da quella trappola senza trovare mai un’eco al mio grido. Oppure telefonargli e rinfacciare anche a costui il mio disappunto e la rabbia impotente che mi agitava… «Ah, ciao! Che piacere…» ed io umilmente a ricordare che… «Ma certo! Ha avuto da fare in questi giorni e appena si sbriga…» che il ricorso scadeva il 20 dicembre, tra un mese e mezzo, e che ogni ritardo... «Ma sì! Non ti preoccupare, te la passo…». No, Giovanni, ci tengo, come dicevo l’altra volta, che sia una scelta consapevole la sua, dopo aver preso cognizione della faccenda leggendo quanto vado scrivendo sul mio sito… «Ma non ti preoccupare…» ed io, soddisfatto di me per non essermi arreso al silenzio, all’indifferenza e, nemmeno, alle mie psicotiche kafkiane visioni, restai ancora in attesa… Trascorsero altri giorni prima che la moglie di Giovanni mi inviasse un messaggio per comunicarmi la disponibilità ad essere contattata, quando eravamo già a metà novembre. Quasi due ore, la prima volta, a tentare di sciorinarle i fatti e come la mia fosse una battaglia di civiltà contro una pubblica amministrazione che aveva leso i miei diritti fondamentali con la complicità della stessa magistratura che aveva insabbiato per tre anni la mia denuncia procedendo a iscrivere i colpevoli nel registro degli indagati solo a seguito dell’intervento da parte del Presidente della Repubblica, allora il benemerito Ciampi, e che ero stato tenuto per sei anni e mezzo lontano da qualsiasi attività lavorativa pur percependo lo stipendio e che avevo bisogno di assistenza per fare il ricorso per Cassazione contro la sentenza del Giudice del lavoro di Appello e per adire civilmente per il sequestro subito nel 2001 contro i responsabili già condannati penalmente con sentenza passata in giudicato ma - insistevo - volevo che lei comprendesse, più che altro, il significato e lo spirito della azione che stavo portando avanti da sedici anni e che se ne compenetrasse, leggendo quanto avevo scritto sul mio sito, sansevero punto it, come d’altronde le avevo richiesto, tramite l’amico e marito Giovanni, ma che - me ne rendevo conto - non aveva fatto. La cosa che più mi insospettì fu un certo suo atteggiamento rispetto ad alcune mie affermazioni e le parole tradiscono chi non ne tiene conto. Non ho pretesa di riportare, se mai lo ricordassi, il dialogo che ne era seguito ma a un certo punto le stavo riferendo quanto avevo risposto all’avvocato di Foggia quando mi aveva comunicato di non volere proseguire nel mandato, e cioè che, per quanto dispiaciuto, consideravo, d’altra parte, il lato positivo della cosa perché mi sollevava da un peso per poter tornare agli interessi che ritenevo più piacevoli… quando lei, interloquendo sulla cosa, ebbe a darmi ragione e merito della mia scelta in quanto «la cosa importante è la tranquillità eccetera…», non comprendendo che stavo proseguendo per dirle che non potevo, tuttavia, lasciar spegnere questa vicenda senza reagire ad una una sentenza ingiusta… e che ciò, per quanto mi pesasse, rispondeva al mio obbligo di rappresentarmi come persona offesa nella propria dignità e nei propri diritti fondamentali con una serie di atti illeciti perpetrati da una pubblica amministrazione… eccetera, eccetera… come il lettore che avesse seguito fin qui il mio miserere può ben immaginare… con tutti gli ampi riferimenti all’ omertosa connivenza della Procura di Foggia alla ignobile benevolenza di due Giudici alla evidente mafia politica nel Comune di San Severo e al valore ideale che attribuivo alla mia azione e alla mia resistenza tanto da non riuscire ad accettare di desistervi.
Il mio amico Giovanni
sanseveropuntoit, 4 Aprile 2018
Capitolo settimo
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Giovannantonio Macchiarola