ANAGRAFE E STATO CIVILE Nel 1976, mentre ero in servizio presso l’Ufficio Ragioneria, dove ero stato assegnato già nel 1973 al momento dell’assunzione, per motivi troppo lunghi da dirsi in maniera concisa ma di cui mi riservo di parlare in maniera ben più ampia in un prossimo capitolo, avevo chiesto il trasferimento ad altro settore. Dopo una seconda richiesta scritta, fui convocato dal Segretario generale allora in carica, il dott. Campanozzi, limitandomi al solo cognome nel dubbio che si chiamasse Michele, il quale, per la sua abitudine di tenere sempre chiuse le ante dell’unica finestra di fronte alla doppia porta d’ingresso alla sua stanza, mi ricevette nel buio del suo ufficio appena illuminato dal lume acceso sulla sua scrivania. Con lui avevo avuto a che fare più volte in occasione dei ritardi che mi obbligavano, dopo il ritiro dei fogli di presenza, a recarmi nel suo ufficio per la firma. Un’altra occasione, più rilevante, avvenne, quando, dopo essermi licenziato dal Comune per accettare la nomina ad applicato di segreteria nella scuola e aver compreso l’errore commesso, mi rivolsi a lui per chiedere il rientro in servizio. Avvisai del mio ripensamento anche Michele Aquilano, collega in Ragioneria, che aveva fatto il medesimo passo Campanozzi sosteneva che dovessi fare domanda di rientro non ricordo in base a quale articolo del Testo Unico mentre io avevo individuato quello dove si affermava che nell’arco di quindici giorni, qualora l’Amministrazione non avesse ancora preso atto delle dimissioni con apposita delibera, il dipendente poteva rientrare in servizio su semplice domanda. In quella occasione avevo chiesto l’intervento di Michele Cologno, allora consigliere comunale, e Lilino si prestò ad accompagnarmi una seconda volta dal Segretario Generale per significare il suo personale interesse a quella richiesta. Ricordo ancora il Campanozzi bofonchiare nel buio di quella stanza, intento a consultare il Testo Unico per mettere a confronto alla luce fioca della lampada l’articolo che citavo io, credo fosse il 15, con quello da lui invocato. Alla fine affermò che era la stessa cosa e sia l’uno che l’altro servivano allo scopo prefisso. Io la domanda la feci, in ogni caso, invocando l’articolo 15 e consigliai a Michele Aquilano di fare lo stesso. Quel giorno, rialzando gli occhi dalle sue carte, mi disse: “E dove vuoi essere trasferito?” “Perché?” gli chiesi “Posso scegliere?” Non potendo farlo, fui trasferito nel camerone, all’Anagrafe. Il capo Ufficio di allora, Ermanno Gabriele, era un impiegato di vecchio stampo, un gran lavoratore e una persona naturalmente incline a stabilire cordiali rapporti umani con il personale. Basti dire che quando c’era bisogno di smaltire il lavoro accumulato e doveva prospettarci la necessità di effettuare prestazioni straordinarie, lui ci esortava a esaudire la sua richiesta come fosse una cortesia personale e in maniera tanto garbata da non poterci sottrarre a quell’invito. Non c’è molto da dire sul percorso che feci nei vari servizi ai quali fui via via assegnato; prima, per un breve periodo, all’Ufficio matrimoni al quale era adibito Mario Ravallese; poi, per pochi giorni, all’Ufficio Carte d’identità, retto da Nicola de Lorenzo, e feci persino una capatina alla meccanizzazione dove dominava Edmondo Pienabarca, a cui Matteo Damone indirizzava arditi fotomontaggi. Infine fui assegnato all’Ufficio Nascite e morti, sotto la supervisione di Baldassare, altro vecchio dipendente di cui mi spiace non ricordare il nome in quanto tutti, me compreso, lo chiamavano “Ninnill’”. Con lui collaborava Michele Della Vella con il quale, nato nel mio stesso giorno sebbene ben dieci anni prima, venne a stabilirsi, per la sua continuità dopo il pensionamento di Baldassare, un rapporto empatico protrattosi anche negli anni successivi. segue…
Capitolo Secondo DALLA RAGIONERIA ALL’ANAGRAFE
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