Lufficiochenoncè
SOTTO IL VESTITO, NIENTE!
“Dove
andiamo?”
mi
chiese
Peppino
dopo
aver
avviato
l’auto.
“Ti
accompagno a casa?”
“No. Accompagnami al Comune. Ho da presentare il certificato”.
Già
questo
era
un
modo
per
disattendere
il
consiglio
che
mi
aveva
dato
il
primario
ma,
per
quanto
non
avessi
le
idee
chiare
né
quale
fosse
il
comportamento
da
assumere,
ero
del
tutto
convinto
che,
nonostante
la
sottile
angoscia
che
mi
inquietava
per
la
vergogna
che
mi
sentivo
addosso
dopo
il
sopruso
che
mi
era
stato
fatto,
l’unico
modo
per
superarla
era
quello
di
affrontare
subito,
e
a
crudo,
l’impatto
con
quella
realtà
da
cui
ero
stato
espulso.
Andai in Segreteria, innanzi tutto, per consegnare il certificato.
Elena
Colio
mi
si
fece
incontro
dicendosi,
disse,
dispiaciuta
ma
aggiunse
qualcosa
di
troppo
facendo
riferimento
al
fatto
che
mia
moglie
era
stata
convocata
sul
Comune
il
giorno
prima
del
fattaccio.
Avevo
già
saputo
da
Cristina
De
Santis,
quando
era
venuta
a
trovarmi
in
ospedale,
di
questa
cosa
e
che
mia
moglie
era
stata
vista
uscire
piangendo
dalla
stanza
del
segretario
comunale.
Non
saprei
dire
cosa
esattamente
disse
la
Colio,
facendo
riferimento
a
questa
circostanza,
ma
io
le
risposi
con
durezza:
“Tu
non
sei
degna di nominarla, mia moglie!”, mortificandola e mettendola a tacere.
Poi,
come
a
riprendermi
da
quella
mia
veemenza,
con
tono
faceto
e
quasi
allegro,
aggiunsi:
“In
fin
dei
conti,
tu
sei
servita
come
il
cavallo
che
fu
causa
della
caduta
di
Troia
e,
visto
che,
guarda
caso,
ti
chiami
Elena,
e
hai
svolto
la
funzione
di
quel
cavallo,
posso
da
oggi
ben
chiamarti,
e
con
buona
ragione, Elena di Troia!” e con questa battuta uscii dalla stanza.
Mi
rimane
un
vago
ricordo
delle
persone,
tra
le
quali
il
mesto
sorriso
di
Carolina
Tricarico,
che
si
erano
poi
fermate
nel
corridoio
a
chiedermi
come
stavo,
a
sorridermi,
a
darmi
una
manata
consolatoria
sulla
spalla,
a
farmi
capannello
per
cui,
a
dimostrazione
della
mia
superiore
noncuranza
per
l’accaduto
e
trovandomi
nella
giusta
circostanza,
raccontai
quella
barzelletta,
“la
sapete
questa?”,
del
pazzo
con
un
colabrodo
in
testa
che
ferma
un
gruppo
di
persone
e
chiede
loro:
Scusate,
avete
per
caso
visto
un
pazzo
con
un
colabrodo
in
testa
tra
due
vigili
che
lo
portano
al
manicomio?
No!,
è
la
risposta
e
il
pazzo
dice:
Bene!
Allora,
ancora
non
mi
hanno
preso!
Il
tutto
tra
le
risate
di
costumanza
che
seguirono
in
coro
mentre
vedevo
la
Belmonte
che,
attirata
da
quel
baccano
nel
corridoio,
aveva
socchiuso
la
porta
dell’ufficio
elettorale
per
subito
ritrarsi
e,
dopo
qualche
attimo,
vedo
il
Sacco
nella
sua
disonorata
divisa
da
comandante
venir
fuori
da
quella
stessa porta.
Lo blocco.
“Ciro! Ma come hai potuto farmi una cosa simile?”
“Io
ho
eseguito
un
ordine!”
risponde
“Ho
la
divisa,
io!
Non
potevo
rifiutarmi.”
Lo
guardo
con
commiserazione
e,
accompagnando
le
parole
con
un
gesto
di
sprezzo della mano, gli rispondo:
“E sotto la divisa…, niente!”
“Ma lo sai che posso denunciarti?”
“E
che
aspetti
a
farlo?”
gli
rispondo
e
poi
volgo
le
spalle
a
quel
sacco
ripieno di… Niente.
Capitolo UNDICESIMO
L’UFFICIO CHE NON C’E’