sanseveropuntoit, 21 febbraio 2025
IL CD-ROM
“SAN SEVERO 2000”
Con la soppressione degli ordini mendicanti del 1811 venne chiuso anche il convento di San Bernardino degli Osservanti che distava dall’abitato «circa duecento passi» e poteva ospitare quindici frati, ma ve ne erano undici, sei sacerdoti e cinque laici, che vivevano di elemosina. Il monastero era particolarmente utile alla popolazione perché in esso vi era «l’infermeria della Provincia» che occupava undici stanze e nella quale affluiva gente da ogni dove. Quando si incominciò a diffondere la notizia della soppressione del convento, infatti, il vicario capitolare canonico Bonaventura scrisse all'intendente per rimuoverne il proposito. Approfondimento Nella lettera del vicario capitolare si affermava che il convento degli Osservanti era necessario alla popolazione, non solo per i sacramenti che amministrava e l'istruzione che dava al popolo, ma anche e principalmente perché in esso vi era un laico professo, fra' Matteo, al secolo Francesco Maria Fratino di anni 59 di San Marco in Lamis, « Infermiere e chirurgo », che prestava gratuitamente la sua opera « e cura li poveri non solo di questo comune, ma benanche quelli di tutte le vicine popolazioni, cioè Torremaggiore, S. Paolo, Lesina, Apricena, Castelnuovo, Serra, S. Marco in Lamis, S. Nicandro ed altri, li quali senza veruno emolumento vengono curati con ogni carità ». Nel convento vi era, inoltre, l’ospedale per tutti i religiosi della provincia « e per li locati che discendono dagli Abruzzi in questa Puglia e vengono assistiti e medicati con tutta la Carità cristiana ». E per questi motivi il Vicario capitolare, non solo chiedeva che gli Osservanti continuassero ad operare nel convento di San Bernardino, ma proponeva di «accrescere» la famiglia di altri quattro religiosi, tenendo conto che «sarebbe la medesima onestamente sostentata dalle volontarie limosine di questa popolazione» la quale desiderava «ardentemente» che il convento fosse conservato. Ma l’intendente non condivise le motivazioni addotte dal vicario capitolare e, il 29 giugno 1811, Matteo d’Alfonso incaricato della soppressione, unicamente al sindaco Giuseppe Galiberti, si recò nel convento e, assistito dal padre Vincenzo Lombardí di Lucera, facente funzione di guardiano, e da Pasquale Toma, sindaco apostolico ed amministrativo della rendita del convento, diede inizio alle operazioni di soppressione, inventariando tutto ciò che si trovava nella chiesa, nel coro, nella sacrestia, nella cucina, nel refettorio, nella cantina, nella stalla (dove c'era un cavallo), nel chiostro, nella casa della lavanderia e nella dispensa. Il giorno successivo Matteo d’Alfonso ritornò dai frati e con lui non c’era più il sindaco, impedito, ma il primo eletto Michele Bucci, facente funzione di sindaco. I due, accompagnati dall’infermiere, annotarono accuratamente gli oggetti rinvenuti nella « infermeria della Provincia » e nella « speziaria » tra cui bilance, scatole, vasi di ceramica e di vetro. Vennero anche inventariati tutti i libri della biblioteca dei religiosi, cinquanta volumi, « diversi e vari (...), tutti vecchi ed antichi ». Quasi tutti, infatti, erano stati stampati a Venezia, Bologna, Roma e Napoli nel XVII secolo. In mezzo ai libri vi erano anche quarantasette «borderò», cioè distinte di titoli di credito, intestate ad altrettanti cittadini di S. Severo. Approfondimento La casa religiosa comprendeva trentanove stanze, incluse l’infermeria e la cappella, ma erano abitabili e fornite di vetrata solamente quelle occupate dai monaci e quelle adibite ad infermeria. Davanti al convento, la cui facciata aveva tre balconi con ringhiera di ferro, c'era « una largura » con tre grossi alberi di olmo « ed una croce di ferro sopra una muraglia »; alle spalle c'era un orto, di circa una versura, con due pozzi, numerosi alberi di olivi e di « diversa frutta ». « L’infermeria » del convento tirava avanti con « una rendita in grano » di tomoli centodue, ricavati dall’affitto di venti versure di terreno al Signor Felice La Pietra, e di tomoli nove dall’affitto di due versure di terreno « chiamato Boschetto » e ducati tredici di canone d’affitto pagati da Nicola Morelli per mezza versura di orto. Queste entrate erano, però, insufficienti, tanto che nel 1811, per « la sussistenza » dei frati e specialmente per provvedere alle necessità degli infermi della provincia, venne contratto un debito di ducati 241,43. Un estremo tentativo di salvare il convento venne fatto dal Provinciale degli Osservanti della Monastica Provincia di S. Angelo di Puglia, padre Giuseppe da Torremaggiore che il ottobre 1811 chiese all’intendente che invece del convento di Manfredonia venisse conservato quello di San Severo « perché come convento situato circa mezzo miglio lontano dall’abitato, il Governo non ne potrà fare verun'uso ed i Religiosi, come luogo di infermeria, e posto in una comune più grande e più comoda starebbero migliore e non verrebbero a perire di fame, come lo sarebbe in Manfredonia ». Il 25 ottobre 1811 il sindaco Giuseppe Galiberti e Matteo d’Alfonso distribuirono ai frati del convento « per bussola », ossia per sorteggio, tutti i « generi, mobili ed utensili addetti all’uso della Comunità» e invitarono i frati a lasciare il chiostro entro quattro giorni e «portarsi al loro destino, ma con le robe toccatili in sorte ». Approfondimento In quella circostanza il sindaco non seppe resistere alla tentazione di conservare per un ricordo del convento e si appropriò di un orologio appartenente alla comunità e del letto di un frate. Su segnalazione del padre guardiano Costantino Iacobacci di Serracapriola, l’intendente lo invitò perentoriamente a restituire il maltolto.
LA SOPPRESSIONE DEL CONVENTO DI SAN BERNARDINO DEGLI OSSERVANTI CREDITI: “La soppressione degli ordini monastici in Capitanata” di Anna e Giuseppe Clemente
I CONVENTI